La portata planetaria della crisi pandemica del 2020, gli alti costi pagati in termini di vite e di danni economici nonché la paralisi imposta (con conseguenze tuttora evidenti) alle persone ed alle aziende in tutto il mondo hanno costituito una brusca ed inattesa frattura nel mondo che conoscevamo.
Tutti ne siamo stati testimoni diretti, eppure solo il tempo ci permetterà di comprenderne appieno gli effetti ed i costi (economici, sociali, politici e psicologici) oggi solo in piccola parte calcolabili.
Non abbiamo fatto neppure in tempo ad uscirne che la guerra in Ucraina ha riportato in Europa la coscienza di quanto la “storia” non sia – in grande parte – che la narrazione di disastri ed eventi epocali che avremmo preferito non conoscere mai.
Le crisi planetarie non sono una novità, basti pensare che le ultime tre, quattro generazioni hanno assistito a catastrofi quali le guerre mondiali, gli stermini di massa, le esplosioni nucleari, la guerra fredda, il terrorismo, i conflitti religiosi, le cadute dei mercati azionari e non ultimi l’inquinamento ambientale e le grandi migrazioni.
La dimensione di questi eventi ha spesso superato la capacità di risposta sia nazionale che internazionale ed ha scritto la parola fine oltre che milioni di vite anche all’esperienza di aziende piccole e grandi.
Se provate a confrontare l’elenco di Fortune 500 del 1996 con quello del 2022 scoprirete che molte delle aziende che erano ai primi 100 posti hanno cambiato posizionamento o addirittura non esistono più.
Con il Covid19 e la guerra in Ucraina abbiamo maturato la consapevolezza che le grandi catastrofi sperimentate nel passato e le previsioni prefigurate per il futuro dagli analisti possono concretizzarsi nel nostro presente e nel nostro prossimo futuro.
Nuove pandemie potranno accadere, il riscaldamento globale potrà elevare il livello del mare creando disastri nelle coste, sommergendo isole e generare altrove desertificazione con pesanti conseguenze sulla agricoltura. Nuovi conflitti armati sono prevedibili e imminenti per l’accesso alle risorse idriche, alimentari e per le materie prime.
Conflitti sociali, autoritarismi e disinformazione potrebbero minacciare, ed in alcuni casi minare, sistemi basati da decenni sulla democrazia.
Ora ritengo, siamo coscienti del fatto che dobbiamo prepararci e preparare le nostre aziende per affrontare e vincere queste crisi quando si presenteranno.
Come abbiamo imparato durante la pandemia le aziende, per sopravvivere, hanno dovuto derogare dalle normali procedure e adattarsi cambiando processi ed abitudini.
Le crisi, infatti, richiedono un approccio STRATEGICO perché NON possono essere gestite con procedure e processi ordinari. Questo pone il compito del Datore di Lavoro al centro della capacità di risposta delle crisi, fattore che richiede all’azienda di prendere consapevolezza del tema e cosa che spesso viene sottovalutata.
Purtroppo ancora oggi molti manager, anche di importanti aziende, credono interiormente, di poter risolvere una crisi aziendale quando si presenterà, avvalendosi del proprio talento e delle risorse aziendali.
Per questo motivo, trattano la preparazione delle crisi alla stregua di un esercizio poco utile, da condurre “ogni tanto”, se proprio necessario e se compatibile con l’agenda.
La crisi pandemica ha trovato moltissime aziende impreparate e ha mostrato chiaramente che questo atteggiamento è sbagliato.
Per dare un esempio pragmatico di quanto in Italia sia ancora poco diffuso un approccio strutturato al Crisis Management basta consultare il sito di Accredia e verificare quante siano le aziende certificate ISO 22301 Business Continuity (lo standard 22301 tratta il Crisis Management come parte integrante del processo di Continuità Operativa). Prima del Covid19 le aziende erano 45, a Luglio 2022 erano 86 (con 281 siti certificati).
Gestione delle Crisi e continuità operative – come abbiamo visto durante la pandemia sono due concetti inscindibili: l’assetto normativo attualmente in vigore (art. 2087 c.c. ed il D.Lgs. n. 81/2008), applicabile a “tutti i settori di attività, privati e pubblici, e a tutte le tipologie di rischio” (art. 3, co. 1, D.Lgs. 81/2008), impone al datore di lavoro di compiere valutazioni e decisioni connesse ad ogni prestazione che ciascun lavoratore è tenuto a svolgere in azienda, con il rischio di incorrere in responsabilità anche di rilievo penale nel caso in cui si dovessero verificare criticità.
E nelle crisi le criticità…avvengono sempre! Ne consegue in caso di crisi una responsabilità diretta del datore di lavoro e dell’azienda ai sensi 231.
In caso di crisi, laddove non possa garantire ai lavoratori un livello di sicurezza adeguato, nei luoghi dove si svolge l’attività d’impresa, il Datore di Lavoro dovrà prevederne la chiusura.
Il Security Manager, quando presente nell’organizzazione aziendale e soprattutto laddove al suo contributo professionale viene riconosciuta il ruolo strategico di advisor del board, può avere un ruolo importante e nella creazione, nello sviluppo e nella “manutenzione” di un processo strutturato di gestioni delle crisi.
Questo perché la funzione security…
- È abituata a gestire rischi, avendo il compito riconosciuto di garantire una corretta valutazione dei rischi cosiddetti atipici, ovvero quelli non legati all’espletamento delle mansioni lavorative.
- Presidia il territorio aziendale, nel suo ruolo di presidio fisico e di controllo accessi delle varie unità.
- È sempre sul pezzo (il security manager presidia 24/24 l’azienda attraverso le sue persone addette alle portinerie, alla vigilanza ed alla gestione dei sistemi di sicurezza (allarmi TVCC)
- È punto di contatto aziendale con le agenzie statali di sicurezza.
Come possiamo mettere in grado la nostra azienda ad essere pronta il giorno che servirà?
Continua nella prossima newsletter.
di Samuele Caruso, CCP, PCI