A Beirut c’è un grande martello che simboleggia la giustizia che cade su una scritta “Act for justice”. C’è una statua raffigurate una donna che tiene, nella mano destra, una colomba costruita con i rottami del porto di Beirut. I palazzi della zona portuale sono cosparsi di scritte “qui sono morte 3 persone” “qui sono morte 8 persone” e via dicendo… In un altro palazzo invece capeggia una scritta, emblematica come poche, “avete perso la vostra immunità”.
Il 4 agosto nella capitale libanese si sente, si vede, si percepisce a fa male ancora, nonostante siano passati 2 anni. Due lunghissimi anni in cui il Libano è diventato una polveriera.
E domenica si vota. Si vota per la giustizia, per trovare i colpevoli, per ricordare i morti di quel 4 agosto 2020. Si vota per una svolta. L’ennesima.
Votare in Libano è, da sempre, una questione di sicurezza così importante, così decisiva, che il Consiglio Supremo della Difesa libanese si è dovuto riunire, la scorsa settimana, per creare una cellula operativa in grado di monitorare la situazione delle città libanesi durante il periodo elettorale[1].
Le elezioni di domenica saranno, infatti, le prime dai fatti del porto di Beirut e, per certo, saranno ricordate dalla popolazione che non dimentica quelle esplosioni, quei morti, quei politici -fin troppo- disattenti. O fin troppo colpevoli per altri.
Così, il focus di queste ore è sul futuro Presidente, l’uomo su cui ricadrà il compito di garantire il proseguimento del contraddittorio processo sull’esplosione al porto. Il parlamento che verrà eletto nominerà, infatti, il nuovo Presidente del Paese, che per legge dev’essere di fede cristiano-maronita, e a cui tutto il Libano guarda con speranza. Ed anche il mondo intero resta con il fiato sospeso per il post-Michel Aoun nella speranza che il Paese ritorni ad essere quel “bagliore di speranza” nel Medio Oriente che per anni è stato.
È così che sono iniziate le previsioni sul futuro inquilino di palazzo Baabda. Sarebbero senza possibilità, secondo i media locali, i due frontrunner della prima ora: Gebral Bassil, genero dell’odierno Presidente Aoun e leader del Movimento Patriottico Libero, e Suleiman Frangieh, leader del Movimento Marada. Su Bassil pesano, infatti, le sanzioni statunitensi, imposte nel 2020 per aver “eroso le fondamenta di un governo efficace al servizio del popolo libanese” e favorito “un sistema di corruzione endemica”[2], che limiterebbero al genero di Aoun la sfera d’azione presidenziale. Su Frangieh, invece, pesa -tantissimo- la visita di metà aprile da Sergey Lavrov a Mosca, visita che sbatte contro l’aiuto occidentale alla ricostruzione del Paese[3].
Così a spuntarla potrebbe essere un outsider, in grado di catalizzare le preferenze dei partiti.
Il primo, nelle preferenze libanesi, sarebbe Joseph Aoun, generale a capo delle Forze Armate Libanesi. Jospeh Aoun è, infatti, molto ben visto dai partiti per il suo, complicato, ruolo da stabilizzatore degli animi libanesi. La sua candidatura, però, potrebbe essere ‘frenata’ dall’Occidente che temerebbe di perdere un ottimo asset all’interno dell’esercito di Beirut. Un’altra figura che starebbe prendendo piede nelle ultime ore è quella Jihad Azour, già Ministro delle Finanze dal 2005 al 2008. Azour sarebbe ben visto soprattutto dalle autorità finanziare mondiali che ne avrebbero, fin da subito, caldeggiato la sua candidatura in virtù del suo ruolo presso il Fondo Monetario Internazionale come Director of the Middle East and Central Asia Department[4]. Azour potrebbe, secondo questa lettura, erigersi da garante della ricostruzione libanese e del sistema Libano in generale.
In molti, nel Paese dei Cedri dicono che il confessionalismo abbia “creato e distrutto tutto”. Queste elezioni, che arrivano forse nel momento più delicato del modello confessionale libanese, hanno la possibilità di creare un nuovo Libano, libero, democratico o -appunto- distruggerlo definitivamente.Solo il tempo ci darà la risposta al nuovo complicato grattacapo libanese.
di Nicola Bressan,
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Caporedattore ASIS Italy